giovedì 6 giugno 2019

Questo manga s’ha da collezionare!

Racconta Toshihiko Sagawa, ideatore e direttore della celebre rivista dalle tematiche omosessuali June, che quando Il poema del vento e degli alberi (Kaze no Ki no Uta, 1976) di Keiko Takemiya uscì in Giappone sulle pagine di Shojo Comic, finì a stretto giro per diventare il manga più imitato dalle giovani disegnatrici di doujinshi che affollavano il Comic Market da lui fondato nel 1975. Non si sa bene quanto coscientemente, ma per Sagawa la disegnatrice era già un punto fermo nella cultura manga: oltre quarant’anni fa, a ottobre 1978, chi aveva illustrato la copertina del primo numero di June? Proprio lei.

La signorina di Tokushima che appena 17enne aveva mosso i primi passi su COM, il periodico a fumetti all’avanguardia ideato da Osamu Tezuka, realizzando il manga breve Ototo (“Fratello”). La stessa signorina che alla fine degli anni Sessanta aveva conosciuto Moto Hagio e con lei e Norie Masuyama era andata a vivere in un appartamento su cui, con singolare tempismo, era piovuto il soprannome “Oizumi Salon”. Sorta di versione al femminile del Tokiwaso di tezukiana memoria e che qualcosa di altrettanto concreto per la storia del fumetto giapponese avrebbe prodotto: la creazione di quel Nijyuyo-nen Gumi (il famoso “Gruppo 24”) da cui sarebbe scaturito lo shōjo manga moderno con autrici che di lì erano transitate: Yumiko Ōshima, Yasuko Aoike, Minoru Kimura e Riyoko Ikeda tra le tante.

In realtà Keiko l’aveva combinata grossa. Il poema del vento e degli alberi, quando finalmente vide la luce, era diventato il “manga dello scandalo”, un’opera da evitare perché oltremodo scioccante. L’autrice aveva impiegato tantissimo tempo a convincere i suoi editor Shogakukan a pubblicarla: la perseveranza l’aveva gestita in parallelo alla sua popolarità tra i lettori, dunque qualcosa da testare e mettere alla prova, soprattutto sotto il profilo artistico. I puristi avrebbero presto sancito che a causa di quel fumetto che parlava di amori omosessuali tra adolescenti, e che l’amore tra adolescenti lo mostrava spudoratamente nelle sue vignette (e pure stupri e incesti), la 26enne disegnatrice aveva scoperchiato un vaso di Pandora che non andava toccato. I più visionari, al contrario, avrebbero celebrato quelle pagine, quelle immagini e quei sentimenti in cui vita e morte, amore e odio sono una miscela micidiale e perfetta, come un’ipoteca sul futuro. Ma Takemiya era già il futuro, con paradossale anticipo. Grazie al formidabile coraggio di “donna in mezzo a un mondo di uomini”, aveva reso più esplicito ciò che l’amica Moto aveva appena sfiorato nei suoi fumetti: l’amore tra due ragazzi. Entrambe avevano sfidato la convenzione dello shōjo come patria di adolescenti innamorate tra ordinarietà e tribolazioni della vita di tutti i giorni, dove perfino un bacio era considerato una cosa audace.

Keiko Takemiya deve essersi sentita un po’ come Agatha Christie quando nei primi anni Settanta decise di pubblicare la sua commedia teatrale Akhnaton, scritta quarant’anni prima e ambientata nell’antico Egitto tra amori proibiti e incesto a dominare la scena. Probabilmente entrambe avevano deciso di respirare l’aria libertaria che quel decennio sembrava deciso a spargere in ogni tassello della vita sociale e culturale. Ma se Christie partiva avvantaggiata grazie alla consolidata carriera di scrittrice, la mangaka doveva guadagnarselo, il diritto di disegnare un fumetto come Il poema del vento e degli alberi. Doveva soprattutto riuscire a trasmettere e raccontare l’amore in ogni sua sfaccettatura, pure spingendolo sull’orlo di un precipizio grazie al protagonista Gilbert Cocteau, abbandonato dai genitori e cresciuto con uno zio, che diventa il balocco sessuale dei compagni di studio più grandi ma anche di spregevoli adulti. Gilbert che finisce per conoscere Serge in una gabbia scenografica occidentale d’altri tempi nata dalla passione viscerale di queste autrici di fumetti per Herman Hesse, Bram Stocker, Fëdor Dostoevskij e Alexandre Dumas.

Il poema del vento e degli alberi, di cui scriviamo grazie alla splendida pubblicazione italiana realizzata da J-Pop (volumi singoli o box da collezione, a cura di Georgia Cocchi Pontalti), che Keiko l’hanno lungamente inseguita e corteggiata pur di portare per la prima volta in Italia un simile capolavoro, è un po’ un’opera letteraria per immagini. Epocali i contenuti e straordinarie le immagini, in cui la vertigine di uno sguardo o di un volto catturato in primo piano sono l’equivalente della teoria per eccellenza che governa il fumetto per ragazze: dare un senso personale, indistinguibile, alle espressioni e alle emozioni. Un’arte del disegno che ha reso quelle immagini, prese singolarmente, opere da collezionare (per i fan c’è il volume illustrato Kaze to Ki no Uta Gensen Fukusei Genga Shu del 2017). Dietro quei volti e quegli sguardi, conferma Takemiya, s’insinua un mondo di ideali e temi supremi su sentimenti e sessualità di cui il lettore non può più essere tenuto all’oscuro. Oggi come ieri.

Quarant’anni dopo la pubblicazione in Giappone, il nemico più pericoloso de Il poema del vento e degli alberi non è pertanto la morale strisciante del passato o il perbenismo giornalistico di oggi (che talvolta è un revenant inopportuno e maleducato quando si tratta di fumetti giapponesi di un certo tipo), bensì la banalizzazione che già incombe su di questo, ora che il box da collezione è stato presentato ufficialmente a Lucca Comics & Games 2018. Volete mettere l’abisso che corre tra le strampalate video-recensioni dei nostrani youtuber e la sublime sintesi di una Banana Yoshimoto, giusto per fare un esempio, la quale presentando l’opera di Hagio, forse la più grande amica e rivale di Takemiya, al prof. Giorgio Amitrano, con candore e devozione da otaku diceva: “Moto Hagio vale quanto e più di tanti scrittori. Guarda che è come Dostoevskij!”.

Qui sotto, Marco Schiavone delle Edizioni BD e J-Pop a Lucca che presenta l’opera.

– Mario A. Rumor

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