Il soggetto arriva dal libro per bambini dell’inglese Ted Hughes (1930-98) pubblicato nel 1968 e scritto per superare lo sconforto, suo e dei suoi figli, seguito alla morte della moglie, la poetessa americana Sylvia Plath (1932-63). È la storia di un’amicizia singolare tra un ragazzino di nome Hogarth e un gigantesco robot negli anni della Guerra Fredda, dello Sputnik spedito in orbita e in un clima di paura e sospetto. Quando Bird varca la soglia degli uffici Warner per parlare del progetto, e dopo aver visionato il materiale sviluppato dallo studio alla fine del 1996, porta con sé una particolare idea del film. Nell’immediato intende portare rispetto al romanzo di Hughes e all’immortale tema del ciclo vita/morte ivi narrato, nella pratica vorrebbe invece rispondere a un quesito filosofico: se un’arma avesse un’anima e decidesse di non essere un’arma? Il suo principale alleato in quel frangente è lo sceneggiatore del film Tim McCanlies. Successivamente Ted Hughes, una volta ricevuto il copione, gli scrive una commossa lettera d’elogio che cela la sua voglia irresistibile di vedere il film (un appuntamento che purtroppo mancherà).
È Brad in persona a collocare l’ambientazione del film nel 1957, un periodo per lui familiare e che restituisce al suo film un volto e un’ambientazione più vera. Questo e altri cambiamenti favoriscono l’introduzione di personaggi come il beatnik Dean e l’agente del Governo Kent Mansley. Senza contare quanto il clima paranoico dell’epoca riesca a mutarsi in strumento spettacolare davvero perfetto. Nel 1999 Bird spiegò: ciò che ci spaventava in quegli anni, nella vita vera, veniva poi raccontato dal cinema. Un’assimilazione che Il gigante di ferro porta sullo schermo con miracolosa efficienza soprattutto tenendo conto dei tempi stringati di sviluppo tra pitch, revisioni della sceneggiatura e approvazione dei vertici Warner. Per essere uno degli ultimi film animati tradizionalmente (oltre 125 animatori che a mano si sono occupati dei personaggi, degli sfondi e di animazioni dinamiche già fin dai primi stadi della lavorazione), Il gigante di ferro si è concesso un unico peccato di gola digitale: la creazione del robot in CGI. Bird la raccontò così: “Il gigante proviene da un altro mondo, quindi abbiamo deciso di crearlo usando la computer animation, così da dargli massa, solidità e l’impressione di giungere da un posto differente”. Per fare tutto ciò si è servito di un software per ottenere il quale ha dovuto pazientare alcuni mesi. Ma i risultati sono sorprendenti. Come se avessero fatto tutto a mano.
Tra riferimenti cinematografici colti (i classici sci-fi come Ultimatum alla Terra) e superlativi omaggi ad artisti quali Norman Rockwell, Edward Hopper e N.C. Wyeth, Il gigante di ferro nella sua versione originale sorprende grazie agli attori che hanno prestato la voce ai personaggi e che per Bird non dovevano essere necessariamente delle star. Attori in grado di capire il personaggio e al tempo stesso regalargli un’anima. Tra Jennifer Aniston nei panni della madre del protagonista e Harry Connick Jr. in quelli di Dean, soltanto Hogarth ha goduto di una corsia vocale personale. Bird desiderava una voce dalla grana genuina. Una voce fresca, innocente come il suo personaggio ma anche un po’ scaltra. Il 12enne Eli Marienthal, dal discreto curriculum televisivo, fu preso grazie a queste caratteristiche. Da ricordare infine il grande Vin Diesel nella parte... non-del-tutto-parlante del gigante! Qui sotto il trailer italiano... e ancora una volta, buona visione (magari alla ViewFest 2019 di Torino, domani venerdì 18).
– Mario A. Rumor
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