In fondo “uno sfigato che parla con i pesci” è ancora un po’ l’idea del supereroe Aquaman della maggior parte delle persone, ex bambini degli anni Settanta e Ottanta che lo ricordano per la serie animata de ISuperamici(gli altri non lo conoscono proprio, come la quasi totalità degli attori coinvolti). Dove, in effetti, assieme a Superman, Batman e Wonder Woman (e alcuni ragazzini ispirati agli amici di Scooby Doo), risulta davvero “uno sfigato che parla con i pesci”.
Non che la vita fumettistica del signore del regno di Atlantide fosse stata molto più ricca: è stato creato per la National (antesignana dell’odierna DC) nel 1941 da Mort Weisinger, futuro carismatico (e tirannico) editor di Superman e dal disegnatore Paul Norris – e la cosa è stata celebrata da apposito un eastern egg nel film – ma è palesemente ispirato dal Namor del grande Bill Everett, ideato due anni prima per la Timely, cioè la futura rivale Marvel. Anche nel nome: se Namor era l’anagramma di Roman, Aquaman è un mix di latino e inglese (per gli americani molto sofisticato, per un italiano quasi ridicolo). Nella versione più nota delle sue origini si chiama Arthur Curry è figlio del guardiano del faro Thomas Curry e di Atlanna, sovrana del regno sottomarino di Atlantide. Negli anni Novanta lo sceneggiatore Peter David ha rinnovato il personaggio con un ciclo di 43 storie dal 1990 al 1998, in Italia raccolte in volume dalla RW Edizioni lo scorso 11 novembre: in alto la copertina del primo, 320 pagine sul Re dei Sette Mari con Aquaman: Time and Tide nn.1-4 e Aquaman nn.0-8), rendendolo più affascinante e tormentato: inoltre, non parla più ai pesci, ma comunica con loro telepaticamente.
È questo, almeno in spirito, l’Aquaman nel sesto lungometraggio del DC Extended Universe, diretto dal malaysiano naturalizzato australiano James Wan ancora con Jason Momoa, che già lo aveva interpretato in un fugace cameo nel velleitario Batman v Superman (2016) e coprotagonista nel confuso Justice League (2017). Momoa, nato ad Honolulu da una caucasica e da un hawaiano, è meticcio proprio come Aquaman (gli atlantidei razzisti gli danno del “mezzosangue”) ed è noto per aver interpretato personaggi fantasy come Khal Drogo nella serie tv Il Trono di Spade o Conan the Barbarian (film 2011)... e in effetti Aquaman è in tutto e per tutto un fantasy con un eroe riluttante.
A questo link in anteprima le impressioni del nostro diretùr Loris Cantarelli, mentre a quest’altro trovate mezz’ora in inglese con quanto mostrato sui mass media prima dell’uscita... ma per gli appassionati, una storia a fumetti di Peter David rimane il miglior Aquaman possibile!
Per far prima, ci si ricorda dei trascorsi fumettistici di Roberto Aguirre-Sacasa, lo showrunner 46enne della serie Netflix Le terrificanti avventure di Sabrina. Alla Archie Comics, infatti, il prode scrittore ha sempre fatto faville, pur scatenando inizialmente lo scontento della casa editrice con il progetto della commedia teatrale Archie’s Weird Fantasy del 2003 in cui il personaggio simbolo della casa editrice, nato nel 1941, faceva coming out. Inaccettabile.
Dieci anni dopo, superato il momentaccio, Aguirre-Sacasa con più solida attività sul groppone è ancora sulla breccia: crea Afterlife with Archie dove immagina la cittadina di Riverdale in versione post-apocalittica con tanto di infestazione zombi. Il successo dell’operazione (giunta anche in Italia grazie a Edizioni BD) porta bene al prode autore che così diventa capo dei creativi della casa editrice. La nuova popolarità di Archie Comics, sempre grazie ad Aguirre-Sacasa, si lega al tanto auspicato pellegrinaggio verso i lidi televisivi prima con la soap tinta di nero Riverdale, già alla terza stagione, e quindi con The Chilling Adventures of Sabrina, dal 26 ottobre in streaming su Netflix e già rinnovato fino alla quarta stagione.
Per far prima, dunque, si ricorda il passato fumettistico di Roberto Aguirre-Sacasa, ma non si citano quasi mai gli articoli pubblicati verso la fine degli anni Novanta sul periodico-cult del cinema horror e fantastico Fangoria. Articoli che sicuramente han funzionato da preludio ai tanti progetti e sceneggiature dark e spiegano anche la piega orrorifica presa dalla serie Netflix. Un horror malsano lasciato bollire nel calderone a ogni episodio. Di Sabrina si può dire che è stato fumetto nel 1962 in albo altrui e clima pure televisivo piuttosto favorevole per gli sventolamenti magici (Vita da strega e Strega per amore). Un fumetto diventato trent’anni più tardi ancora più popolare grazie alla sitcom Sabrina, vita da strega sulla ABC con Melissa Joan Hart che con quel personaggio concluse affari d’oro tra film tv e merchandising.
Questa Sabrina della commedia e dei fumetti non possiede che il nome. Per devozione familiare si porta ancora dietro le due zie Hilda e Zelda e il gatto nero Salem. Sempre orfana dei genitori, madre umana padre stregone, la ragazzina fa la sua apparizione come se il tempo non fosse mai trascorso studiando alla Baxter High e circondandosi di amiche fedeli ma soprattutto del fidanzatino Harvey Kinkle, per cui è disposta a fare qualunque cosa. Sabrina è una mezza strega che prova amore, compassione per il genere umano e non è disposta a firmare il suo battesimo di sangue per compiacere il Signore Oscuro: l’altro nome del caro vecchio Satana. Desidera continuare a vivere da normale essere umano e un compromesso c’è: frequentare al tempo stesso l’Accademia delle Arti Occulte, presieduta dal Sommo Sacerdote della Chiesa della Notte, Faustus Blackwood. Nell’ombra si agitano però le forze del Male. Quel battesimo s’ha da fare, assolutamente…
Le terrificanti avventure di Sabrina dovrebbe ringraziare di cuore (o con il cuore) la trasferta su Netflix al posto dell’originaria The CW (il canale USA per adolescenti dov’è ospitata Riverdale). Immaginate le torme di genitori inferociti al solo ascoltare ripetute lodi a Satana, assistere a cerimonie equivoche, sacrifici (l’episodio “Il banchetto dei banchetti”) e cannibalismo? Per non parlare degli sgozzamenti che magari non sono belli da vedere ma raccontano il perverso piacere di Aguirre-Sacasa nell’aver immaginato per la tv un teen drama che, nel profondo, affronta tematiche di devozione religiosa e cultura dell’appartenenza in maniera molto più sofisticata di quanto ci si aspetterebbe da un telefilm per adolescenti. Qualcuno ha fatto notare che le giovani generazioni in parte sono già preparate alla sua fruizione: la magia oscura o un passato da riparare con genitori non più presenti s’è visto in Harry Potter, mentre il bestiario demoniaco è già caricato in memoria grazie a un cult autentico di nome Buffy l’Ammazzavampiri. Impossibile però determinare se Sabrina sia un epigono di Sarah Michelle Gellar e della sua indimenticata cacciatrice.
Che Le terrificanti avventure di Sabrina sia intriso di memorie horror è facilmente deducibile dalla cultura horror della protagonista (primo episodio: tutti al cinema a vedere The Night of the Living Dead in una sala stracolma) ma in misura maggiore dalla costruzione dei singoli episodi che sul sovrannaturale sono un vademecum assai prezioso: si corre in libertà da Rosemary’s Baby alle pellicole della Hammer Film. Questa Sabrina, d’altronde, è un ripetuto viaggio all’inferno che si lascia ammirare, soprattutto visivamente: foreste spettrali ma incantevoli, splendidi paesaggi notturni e cimiteri che ti guardano dal grado zero del terreno. Poi, indubbiamente, il satanismo-chic di questa congrega di stregoni è fonte di dialettica per futuri dibattiti: loro non sanno cos’è l’amore (e taluni vorrebbero conoscerlo), ma si destreggiano tra lussuria e perversione perché “solo” quella religione è conosciuta e praticata dai suoi protagonisti, con una legittimazione che minimizza ogni critica dall’altra parte dello schermo (tanto, sempre fiction è). Di metafora in metafora, con mozzichi di ironia che non toccano ancora le vette firmate da Josh Whedon ai tempi di Buffy, c’è indubbiamente del marcio a Greendale, patria della biondina dal cuore d’oro Sabrina, ma c’è anche parecchia arguzia. La 19enne Kiernan Shipka nei panni della protagonista è un bijou di perfezione: arrivando dagli anni Sessanta della serie tv Mad Men s’impossessa del ruolo con una naturalezza proverbiale. Nella serie ci sono echi dai meravigliosi anni Sessanta ma anche tanto glamour immaginifico e musicale dagli anni Ottanta... insomma, un continuo calembour tutto da scoprire e apprezzare.
Ormai Hayao Miyazaki è entrato nel grande tempio della saggistica cinematografica. In Italia la letteratura “scientifica” legata al nome del regista si è dimostrata piuttosto solerte: tante e diverse sono le pubblicazioni che si sono incaricate di indagare la fenomenologia dell’autore giapponese.
Alle pubblicazioni tutte-immagini e niente cervello pubblicate da Ultra, in spregio al divieto assoluto che lo Studio Ghibli esige sull’utilizzo delle immagini, a meno che non siano destinate su rivista, uno dei pochi libri davvero meritevole d’attenzione è I mondi di Miyazaki. Percorsi filosofici negli universi dell’artista giapponese a cura di Matteo Boscarol e edito da Mimesis. Volume che giunge ora alla sua seconda edizione con tre nuovi interventi, uno dei quali è legato a doppia mandata al ritorno sulle scene di Miyazaki e alla proiezione presso il Museo Ghibli del suo ultimo, chiacchieratissimo, cortometraggio Boro il bruco (Kemushi no Boro, 2018).
Già alla prima apparizione in libreria, I mondi di Miyazaki aveva lasciato un ottimo ricordo nel lettore, merito dei contenuti e degli autori coinvolti nella redazione dei testi, tra cui citiamo il critico di cinema Andrea Fontana (curatore di un saggio dedicato al Ghibli assieme a Enrico Azzano) e Massimo Soumaré, scrittore e traduttore che la materia nipponica la conosce come le sue tasche. Alla sua prima apparizione, soprattutto, il volume curato da Boscarol aggirava la mera saggistica cinematografica entrando in sintonia con le principali opere animate del regista giapponese scegliendo di approfondire temi, ideologie e “sogni” e riuscendo pertanto ad ampliare una prospettiva altrimenti desueta.
Questo secondo viaggio in libreria si presenta quindi oltremodo gradito, in considerazione del fatto che – finalmente – viene tributato un omaggio particolareggiato, “da veri specialisti” dell’ascolto, al musicista Joe Hisaishi e alle composizioni realizzate per le opere di Miyazaki. Lo firma Marco Bellano e il titolo del contributo è “Il vento è cambiato. Le strategie audiovisive di Miyazaki Hayao e Hisaishi Joe in Si alza il vento”. Prima volta molto istruttiva anche quella che il curatore Boscarol ha riservato al fumetto di Nausicaä della Valle del vento: “Attraversare la soglia, il movimento della vita e la vita come movimento. Una lettura del manga Nausicaä della Valle del vento”. È ancora Boscarol a fornire infine una disamina piuttosto affascinante e di “prima mano” del corto Kemushi no Boro regalandoci sensazioni e suggestioni in differita del lavoro di Miyazaki, visibile esclusivamente al Saturn Theater del Museo Ghibli (titolo del saggio: “Il bruco Boro. Un’escursione in mondi sconosciuti e invisibili”).
Con le sue 162 pagine, I mondi di Miyazaki è dunque un piccolo grande libro che ha il sapore dell’avventura e della scoperta. Un contributo a più voci che riconcilia il lettore e lo spettatore curioso a un’idea di saggistica che non è una banale sovraesposizione di chiacchiere da internauti, ma qualcosa di decisamente più appagante.
Non è soltanto frenesia nostalgica. Lupin III è una parte del nostro DNA di esseri viventi occasionalmente capitati dalle parti della Japanimation in un periodo della vita in cui i cartoon “alla tele” volevano dire davvero qualcosa (pressoché ininterrottamente in onda sulle tv italiane dal 1979, come solo Heidi prima di lui). E ti regalavano qualcosa di molto simile alla beatitudine. Lupin ti resta dentro perfino ora che la visione delle sue avventure è diventata una questione “privata” grazie ai box collector in dvd o, come in questo caso, in Blu-ray da vedere e rivedere nella tranquillità domestica. La frenesia nostalgica aiuta semmai con le distinzioni, perché il celebre personaggio inventato nel 1967 dal disegnatore Monkey Punch sulle pagine del settimanale Manga Action starebbe bene in un quadro di Andy Warhol: un colore diverso per ogni stagione televisiva o cinematografica: verde, rosso, rosa, blu. Una giacca colorata al posto del suo nome completo all’anagrafe dei cartoni che la differenza la fa, eccome.
Prendete Lupin The 3rd - La prima serie, che Koch Media e Yamato Video propongono finalmente in un box da collezione in Blu-ray a 3 dischi: banalmente prende il posto di una edizione per l’home video che non ha sempre trovato la lealtà compatta dei fan. Tecnicamente è uno dei Lupin migliori di sempre, “quello dalla giacca verde” che arrivò sulla nipponica Yomiuri Terebi nel 1971 con una faccia gaglioffa e da bon vivant e alla fine si congedò dal piccolo schermo, causa ascolti bassissimi, con un’altra faccia frutto della sinergia da “salvataggio in extremis” della coppia di registi Isao Takahata e Hayao Miyazaki per effetto dei quali il personaggio originale dei fumetti prese a flirtare con l’animazione e la serialità televisiva con amabile leggerezza e ironia.
Se appartenete alla sempre più ristretta categoria di coloro che di una serie vogliono conoscere vita, morte e miracoli, l’edizione Koch Media porta in dote un piccolo booklet di 32 pagine con la sinossi dei 23 episodi della serie, qualche immagine e i disegni preparatori dei personaggi; ma soprattutto consegna ai fan una selezione di testi a firma Francesco Prandoni apparsi nel primo numero del mensile Shin Man-ga! nel novembre 1999 più un ulteriore testo che ci svela i segreti episodio per episodio. Silvia Rebez, altra firma storica del mensile edito da Yamato, propone invece un contributo incentrato sulle armi usate dalla banda di ladri professionisti. Magari non siamo ai livelli delle guide pubblicate in Giappone, roba da salivazione irrefrenabile, ma guai a farsi mancare questa piccola infornata di informazioni di prima mano sulla genesi dell’anime televisivo. Altrove non le troverete.
Dopo tribolazioni mai sopite, i fan non avranno neppure da obiettare sulla notevole qualità tecnica riservata al box. Le immagini sono nitide, i colori hanno una speciale brillantezza e il comparto audio permette di scegliere il doppiaggio italiano, quello storico del 1979, oppure il doppiaggio giapponese con sottotitoli. Dignitosi anche i contenuti extra grazie alla presenza delle sigle originali e file di approfondimento sui singoli personaggi. Il pezzo forte arriva puntuale al disco 3: il pilot film di Lupin III diretto da Gisaburo Sugii con la collaborazione di Tsutomu Shibayama che servì da trampolino di lancio per il futuro televisivo del ladro gentiluomo. Un pilot che si può visionare nella sua versione cinematografica in cinemascope oppure nel formato televisivo. Se non avete mai visto una sola puntata della serie in vita vostra (nel quale caso, siete da ricovero immediato), consigliamo di partire proprio da qui, dal pilot, per poi lasciarsi trascinare nella vita spericolata di Rupan Sansei.
Doraemon in Giappone è un’istituzione pop, nel 2008 nominato addirittura in una cerimonia
ufficiale dal ministero degli esteri «ambasciatore degli anime nel mondo», per
promuovere la cultura e l'industria dell'animazione nipponica. L’inequivocabile colore azzurro che si porta dietro da oltre cinquant’anni (il primo manga è uscito nel dicembre 1969) e la tasca marsupiale che contiene ogni ben di dio tecnologico, hanno reso la creatura a fumetti della coppia Fujiko Fujio un beniamino del pubblico. Un accalappia-famiglie che, puntualmente, ogni primavera fa la sua comparsa nei cinema giapponesi e che, grazie a Lucky Red, anche il pubblico italiano può apprezzare a ogni stagione cinematografica. In patria, tra l’altro, gli incassi in miliardi di yen sono diventati negli ultimi anni sempre più cospicui, tant’è che il botteghino, Doraemon, non lo attraversa e basta: lo domina. Dietro c’è il retaggio storico del personaggio, il culto infantile dell’innocenza e dello svago con l’immaginazione ma soprattutto una campagna promozionale da muovere a invidia i distributori occidentali.
Dai fumetti alla tv, Doraemon è diventato un’istituzione anche al cinema, a partire dagli anni Ottanta, quando fu accompagnato per mano dalla bravura e dalla dedizione nei confronti dell’infanzia del regista Tsutomu Shibayama. Un destino su grande schermo che ha contraddistinto quasi tutti i personaggi più cari al pubblico di giovanissimi lettori: da Anpanman di Takashi Yanase al discolo Crayon Shinchan di Yoshito Usui, da Chibi Maruko-chan di Momoko Sakura all’avversario numero uno in sala di Doraemon, Detective Conan, il “piccolo” investigatore inventato da Gosho Aoyama. La serie Doraemon il film ci racconta però molto altro. Questa serie di pellicole fa parte di una new wave iniziata a metà anni Duemila che ha mandato in pensione Tsubayama e arruolato registi più giovani eppure in sintonia con la materia. Una progenie di film più evoluti tecnicamente, con dose mai eccessiva di tecnologie computerizzate, sempre più attenti alla qualità delle animazioni, dei disegni e degli sfondi scenografici. Senza tuttavia disattendere la necessità di proporre soggetti e storie avvincenti.
Il film che Key Films ha presentato in sala nel 2018 è Doraemon il film - Nobita e la grande avventura in Antartide “Kachi Kochi” (Eiga Doraemon: Nobita no Nankyoku Kachikochi Daiboken, 2017). Lo ha diretto un signore di nome Atsushi Takahashi, che gli anime fan potrebbero ricordare per il lungometraggio Blue Exorcist - The Movie (2012), ma che in realtà vanta breve militanza presso lo Studio Ghibli come animatore e assistente alla regia. Una parentesi professionale utilissima dovendo vedersela oggi con un personaggio talmente ben scolpito nell’immaginario collettivo come Doraemon, e tale da arricchire ulteriormente la dimensione artistica di entrambi. In Doraemon il film - Nobita e la grande avventura in Antartide, Nobita soffre indicibilmente la calura estiva di Tokyo. In suo soccorso, Doraemon lo trasporta quindi su un iceberg alla deriva al polo sud dove, oltre al refrigerio, i due trovano modo di inaugurare un variopinto parco dei divertimenti coinvolgendo anche gli amici di sempre: Gian, Suneo e Shizuka. Nel bel mezzo del divertimento, Nobita rinviene un vecchio anello dorato. Un cimelio di epoche passate per svelarne la cui origine, la compagnia deve trasferirsi in Antartide: sotto la coltre ghiacciata fanno così la scoperta di una città antichissima e conoscono una intrepida ragazzina di nome Kara. Takahashi deve aver sentito molto forte il desiderio di costruire un film d’avventura in chiave personale, sia assecondando la tradizione degli “Eiga Doraemon” (i “film di Doraemon”), sia lasciandosi trasportare da una passione nei confronti del gatto di Fujiko Fujio che nutre da tantissimo tempo come artista e come spettatore. Un amore che sullo schermo ha assunto fin dal prologo una forma dinamica precisa e ben congegnata, probabilmente erede della lezione Ghibli, alternando grandiose scene d’azione, inseguimenti con giganti di pietra e un insieme di personaggi “in forma” e catapultati in una trama dal forte valore educativo. Al giovane pubblico, Takahashi fa vedere di che pasta è fatta la grande avventura ma intanto recapita una lezione di geologia inquadrando l’Antartide come se fosse una delle meraviglie di questo mondo. Una forza della Natura, e non un mero sfondo scenografico.
L’edizione in dvd è l’occasione per rimettersi in pari con la fenomenologia animata di Doraemon, qualora aveste perso l’appuntamento in sala lo scorso luglio, in attesa di ammirare il prossimo capitolo Doraemon il film: Nobita e l’isola del tesoro (Eiga Doraemon: Nobita to Takarajima, 2018), altro formidabile campione di incassi in Giappone. Le immagini del dvd appaiono luminose e dai colori sgargianti. Gli extra forniscono, come d’abitudine, il solo trailer. Un limite che, si spera, future edizioni per l’home video, possano bypassare magari proponendo interviste e making of per saperne di più sul personaggio, su Fujiko Fujio e sulla lavorazione dei film, di cui ripotiamo qui sotto il trailer: buona visione!
È storia di allievi prediletti tutto ciò che riguarda il debutto su grande schermo dello Studio Ponoc, di cui abbiamo parlato su FdC n.273. Un debutto che è cronaca di un’acrobazia nel grande circo dell’industria animata giapponese. Per alcuni, un’acrobazia avventata; per altri un’acrobazia riuscita anche a occhi chiusi. Siccome ergersi a giudici fa ormai parte dell’etichetta mediatica e social di oggi, c’era da aspettarsi un po’ di cautela da parte dei fan nei confronti di Mary e il fiore della strega(Meary to Majo no Hana, 2017). Compresi i pensieri reazionari in merito al doppiaggio italiano, da sempre croce e delizia degli appassionati nostrani (che però tranquillizziamo: qui è fatto bene, senza svolazzi linguistici inutili e da dimensione parallela).
Gli allievi prediletti sono due. Uno è l’impavido produttore Yoshiaki Nishimura, degno discepolo di quel Toshio Suzuki che ha compiuto prodigi nella internazionalizzazione del marchio Studio Ghibli. L’altro è il regista Hiromasa Yonebayashi detto Maro, senza mezzi termini l’animatore preferito da Hayao Miyazaki. Un animatore e regista con angelica faccia da bravo ragazzo al quale Miya-san ha soltanto recapitato un’esortazione promettente alla notizia del suo nuovo film: «Disegna!». Per maggior definizione degli eventi che hanno condotto alla realizzazione di Mary, è sufficiente dire che nel 2014 l’improvvisa chiusura del dipartimento produttivo del Ghibli ha convinto il discepolo a investire in una società uguale e diversa al celebre studio, e il regista-ragazzino a scommettere sul proprio talento dirigendo un nuovo lungometraggio dopo Arrietty - Il mondo segreto dotto il pavimento(2010) e Quando c’era Marnie(2014). Il clan degli ammiratori Ghibli si è rasserenato piuttosto alla svelta dopo aver saputo che nello staff del terzo film da regista di Yonebayashi sono confluiti animatori e disegnatori dello studio, compresi veterani e maestri quali l’art director Kazuo Oga del celeberrimo Il mio vicino Totoro(1988).
Tratto dal romanzo The Little Broomstick della britannica Mary Stewart (in libreria per Rizzoli), Mary e il fiore della strega è una garbata commedia fantasy e avventurosa che può ricordare la malinconia esistenziale di Kiki - Consegne a domicilio (1989). Il fascino discreto della magia, e una bugia di troppo che rischia di trasformarsi in catastrofe, veleggiano in direzione di una portentosa parata dell’immaginazione. Non deve sorprendere se la formale simpatia del film di Yonebayashi tradisce spesso rimandi e riferimenti al cinema del suo maestro. Fa parte del gioco. Ma c’è sicuramente molto di più. Tutti quei riferimenti sono costruiti con grande gusto e notevole professionalità. Non un banale copia-incolla su grande schermo. Mary inoltre fa suo anche il manifesto artistico del Ghibli puntando ad elevata qualità delle animazioni, a immagini splendide, soprattutto quelle paesaggistiche ispirate alla campagna inglese, e – più forte di ogni dissenso – all’intenzione fortissima, mai disattesa, nel raccontare una storia al cinema davvero interessante. Altrimenti, come dice spesso Miyazaki, tanto vale restarsene a casa. I giapponesi, poi, hanno questa volontà di ferro quando producono e realizzano i loro film animati che a Hollywood non si vede con la stessa chiarezza. Il buon risultato riportato da Mary si nota anche in questo aspetto ed è ammirevole la lezione che lo Studio Ponoc vuol portare avanti, proprio ora che il maestro è tornato a ruggire e il Ghibli ha ripreso a lavorare a pieno regime al suo nuovo film.
Lucky Red, dopo averla distribuita nelle sale per un’intera settimana dal 14 al 20 giugno scorso, propone ora la pellicola in dvd e Blu-ray in una edizione impeccabile e di buona qualità, sia nel comparto video che audio. Più che soddisfacenti i contenuti speciali. Rispetto alla modestia delle opere Ghibli in home video, e alla parsimonia mediatica dei suoi principali anfitrioni, a Nishimura e Yonebayashi piace invece raccontarsi e spiegare il dietro le quinte, la fatica e l’entusiasmo del loro lavoro. Sono presenti pertanto la conferenza stampa assieme ai doppiatori originali della pellicola in un simpatico talk davanti al pubblico, il making of, uno speciale sulla canzone del film cantata dal gruppo Sekai no Owari, interviste a regista e produttore, promo e trailer, che trovate anche qui sotto: